GRATUITO PATROCINIO E ASSEGNO DIVORZILE UNA TANTUM: SI COMPUTA NEL REDDITO PER L’AMMISSIONE?

REDDITO PER IL GRATUITO PATROCINIO E ASSEGNO DIVORZILE UNA TANTUM: PER L’AMMISSIONE / REVOCA AL BENEFICIO SI COMPUTA QUANTO PAGATO IN SEDE DI DIVORZIO ?

LA CORTE COSTITUZIONALE E LA CASSAZIONE DICONO DI NO!

CASSAZIONE E GRATUITO PATROCINIO

CASSAZIONE E GRATUITO PATROCINIO

Poichè per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato è necessario che il richiedente sia titolare di un reddito annuo imponibile, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a € 11.746,68 (al 31 luglio 2021), è necessario determinare la rilevanza reddituale della corresponsione al coniuge divorziando dell’assegno una tantum in sede di divorzile.

Invero l’assegno periodico di mantenimento del coniuge dovuto a seguito di separazione o l’assegno divorzile (in caso di divorzio) rappresenta reddito assimilato a quello di lavoro dipendente per il coniuge percipiente e correlato importo deducibile dall’imponibile per colui che lo versa.

Il riferimento normativo è l’articolo 10, comma 1, lettera c) del d.P.R. n. 917/1986 che stauisce «dal reddito di deducono se non sono deducibili nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo, i seguenti oneri sostenuti dal contribuente:…c) gli assegni periodici corrisposti al coniuge…».

Pertanto solo gli assegni aventi carattere di peridicità, ricadenti nelle somme da assoggettare ad imponibile, devono essere computati ai fini della determinazione del reddito rilevante per l’ammissione del gratuito patrocinio .

Per converso, ove si discuta della dazione di una somma (seppur importante) a favore del coniuge da corrispondersi in un’unica soluzione (una tantum), mancando la caratterristica della periodicità, l’importo versato non costituisce reddito imponibile. Trattandoisi perciò di un mero arrichimento patrimoniale e enon reddituale, esso non sarà da computarsi per l’ammissione al gratuito patrocinio o per la sua eventuale revoca.

La stessa Corte Costituzionale in due successive pronunce (Corte cost. ord. n. 383/2001 e Corte cost. n. 113/2007) ha precisato che le due tipologie di erogazione economica, ovvero quella periodica da un lato e quella una tantum dall’altro, pur avento medesima funzione (definire i rapporti economici fra i coniugi), hanno natura tributaria differente:

  1. per il coniuge pagante, l’assegno una tantum non è deducibile;
  2. per il coniuge ricevente, l’assegno divorzile non è imponibile e, quindi, è fiscalmente irrilevante.

Per l’effetto, l’assegno divorzile una tantum non genera alcun tipo di reddito.

Recentemente anche la Cassazione ha ribadito l’indeducibilità dall’Irpef dell’assegno all’ex coniuge corrisposto una tantum (Cfr. Cass. civ., sent., 12 novembre 2019, n. 29178): per la Suprema Corte l’indeducibilità è dovuta al fatto che l’assegno una tantum definisce una volta per tutte i rapporti tra i coniugi per mezzo di una attribuzione patrimoniale, producendo l’effetto di rendere non più rivedibili le condizioni pattuite le quali restano così fissate definitivamente (Cfr. anche Cass. n. 16462/2002 e Cass. n. 23659/2006; Cass. n. 9336/2015).

L’irrilevanza reddituale dell’assegno una tantum, ovviamente, vale tanto per la determinazione dei requisiti utili all’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, quanto a quelli per la revoca dello stesso.

Riportiamo di seguito il testo integrale delle sentenze della Corte Costituzionale nn. 113/2007 e 383/2001, nonchè della Suprema Corte n. 29178/2019 .

Avv. Alberto Vigani

Per Associazione Art. 24 Cost.

 

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Cassazione civile sez. trib., 12/11/2019, (ud. 17/09/2019, dep. 12/11/2019), n.29178

FATTI DI CAUSA

1. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso, affidato a due motivi, per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 77/34/11, depositata il 18 luglio 2011, che ha rigettato il suo appello avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, che aveva accolto il ricorso di B.V.G. contro l’avviso con il quale l’Ufficio aveva accertato, ai fini Irpef, per l’anno d’imposta 2001, il maggior reddito imponibile derivante dal recupero a tassazione dell’onere relativo al versamento, una tantum, effettuato dal contribuente alla moglie, di Euro 67.000,00, in ottemperanza ad atto di transazione stipulato tra le parti nel corso della loro causa di separazione giudiziale tra coniugi.

L’Agenzia, infatti, assumeva l’indeducibilità, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 10, comma 1, lett. c), del predetto componente positivo dal reddito imponibile del contribuente erogante, per difetto del carattere della periodicità dell’attribuzione patrimoniale, oltre che per la mancata previsione del relativo titolo in un provvedimento dell’autorità giudiziaria.

2. Il contribuente si è costituito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, l’Ufficio ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa motivazione circa il fatto controverso e decisivo, individuato nell’affermata sussistenza di un giudicato interno relativo alla qualificazione dell’assegno in questione come assistenziale ed alimentare, che non sarebbe stata contestata dall’Agenzia nel giudizio di merito.

2. Con il secondo motivo, l’Ufficio ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione sia dell’art. 2909 c.c., per avere il giudice a quo erroneamente affermato la sussistenza di un giudicato interno relativo alla qualificazione dell’assegno in questione come assistenziale ed alimentare, che non sarebbe stata contestata dall’Agenzia nel giudizio di merito; sia del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lett. c), per avere la CTR erroneamente ritenuto che l’assegno in questione, non erogato periodicamente, ma pagato una tantum, fosse comunque deducibile ai sensi di tale disposizione, la quale prevede che: ” 1. Dal reddito complessivo si deducono, se non sono deducibili nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo, i seguenti oneri sostenuti dal contribuente: (…) c) gli assegni periodici corrisposti al coniuge, ad esclusione di quelli destinati al mantenimento dei figli, in conseguenza di separazione legale ed effettiva, di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, nella misura in cui risultano da provvedimenti dell’autorità giudiziaria;”.

3. I due motivi, per la loro parziale coincidenza di contenuti, e comunque per la loro stretta connessione, vanno trattati congiuntamente e, essendo fondati, vanno accolti.

3.1. Deve infatti escludersi che la qualificazione dell’assegno in questione “come assegno “assistenziale” o “alimentare” deducibile ex art. 10 ridetto” non sia stata contestata dall’Agenzia e sia quindi “divenuta definitiva”, così come invece affermato nella motivazione della sentenza impugnata (alla pag. 4), come unico motivo di rigetto dell’appello erariale.

Infatti, la contestazione sul punto dell’Ufficio, nei giudizi di merito, emerge dalla stessa sentenza impugnata (pag. 2, par. 2, primo e secondo capoverso), oltre che dalle relative porzioni delle controdeduzioni dell’Agenzia di fronte alla CTP e dell’appello erariale, trascritte dalla ricorrente nell’atto introduttivo di questo giudizio, senza contestazioni della controparte circa la corrispondenza delle citazioni al contenuto delle difese dalle quali sono tratte.

3.2. Deve poi darsi atto che è pacifico, per averlo più volte affermato espressamente il contribuente nel controricorso (ad. es. a pag. 4 dell’atto) che l’assegno de quo è stato corrisposto una tantum, “a titolo di liquidazione e capitalizzazione dell’assegno di mantenimento” dal medesimo controricorrente alla moglie, a seguito di un accordo raggiunto tra i coniugi nell’ambito della causa di separazione giudiziale.

Tanto premesso, questa Corte ha già chiarito che in tema di oneri deducibili dal reddito delle persone fisiche, il D.P.R. n. 597 del 1973, art. 10, comma 1, lett. g), (al pari del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lett. c)) limita la deducibilità, ai fini dell’applicazione dell’IRPEF, solo all’assegno periodico – e non anche a quello corrisposto in unica soluzione – al coniuge, in conseguenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella misura in cui risulta da provvedimento dell’autorità giudiziaria. Tale differente trattamento – come affermato dalla Corte costituzionale nella ordinanza n. 383 del 2001 – è riconducibile alla discrezionalità legislativa la quale, riguardando due forme di adempimento tra loro diverse, una soggetta alle variazioni temporali e alla successione delle leggi, l’altra capace di definire ogni rapporto senza ulteriori vincoli per il debitore, non risulta nè irragionevole, nè in contrasto con il principio di capacità contributiva (Cass., 22/11/2002, n. 16462. Nello stesso senso Cass., 06/11/2006, n. 23659; Corte Cost., 29/3/2007,n. 113). Ed è stato, successivamente, ulteriormente precisato che, in tema d’IRPEF ed ILOR, il D.P.R. n. 597 del 1973, art. 10, (oggi confluito nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10) non consente la deducibilità dal reddito dell’assegno corrisposto in un’unica soluzione, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 8, all’ex coniuge, come affermato dalla Corte Cost. nelle ordinanze n. 383 del 2001 e n. 113 del 2007, non solo perchè si tratta di norma agevolativa, non suscettibile di estensione, ma anche perchè l’assegno periodico e l’attribuzione “una tantum” (pure se rateizzata) costituiscono forme di adempimento dell’obbligo a carico del divorziato differenti per natura giuridica, struttura e finalità (Cass., 30/05/2016, n. 11183. Cfr. altresì, riguardo all’ontologica diversità funzionale dell’assegno divorzile corrisposto in unica soluzione, ai fini della del riconoscimento della pensione di reversibilità in favore del coniuge nei cui confronti è stato dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, Cass., S.U., 24/09/2018, n. 22434).

3.3. La decisione impugnata va quindi cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, si può provvedere anche nel merito, rigettando il ricorso introduttivo del contribuente.

4. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso;

cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente;

condanna il controricorrente al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.900,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2019

 

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Corte Costituzionale, 06/12/2001, (ud. 22/11/2001, dep. 06/12/2001), n. 383

FATTO E DIRITTO

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 maggio 2001 il Giudice relatore Fernanda Contri.

Ritenuto che la Corte di cassazione – sezione tributaria ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, lettera g), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 597 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), come modificato dall’art. 5, comma 1, della legge 13 aprile 1977, n. 114 (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), nella parte in cui non prevede che, in caso di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, l’importo dell’assegno corrisposto in unica soluzione all’ex coniuge sia deducibile dal reddito imponibile ai fini dell’IRPEF, per violazione degli artt. 3, primo comma, e 53, primo comma, della Costituzione;

che il giudice a quo rileva preliminarmente che il giudizio in corso non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale e che la disposizione impugnata è applicabile alla fattispecie sottoposta al suo giudizio ratione temporis, osservando peraltro che un’identica norma è ora prevista dall’art. 10, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi);

che ad avviso del collegio rimettente la Commissione tributaria centrale, nella decisione impugnata, considerando deducibile anche l’assegno corrisposto in unica soluzione, ha interpretato la disposizione al di là del suo tenore testuale e quindi in contrasto con il principio della tassatività dei casi di deduzione delle spese e degli oneri dal reddito imponibile previsti dall’art. 10 del d.P.R. n. 597 del 1973;

che il collegio rimettente rileva che la ratio della deduzione dal reddito complessivo dell’obbligato degli assegni periodici corrisposti in conseguenza di separazione legale, di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, nella misura in cui risultano da provvedimenti dell’autorità giudiziaria, risiede nel fatto che tali oneri sono estranei alla produzione dei redditi del contribuente, che sono sostenuti per adempiere obblighi imposti dalla legge e sono determinati da provvedimenti giurisdizionali;

che la sezione tributaria della Corte di cassazione, richiamate alcune pronunce di questa Corte – in particolare la sentenza n. 134 del 1982, l’ordinanza n. 950 del 1988 e l’ordinanza n. 370 del 1999 – rileva che nel sistema della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) la somministrazione periodica o in unica soluzione dell’assegno ha la medesima funzione assistenziale nei confronti dell’ex coniuge che non ha mezzi economici adeguati o che comunque non può procurarseli per ragioni oggettive, sicché la scelta tra i due modi di pagamento sarebbe attribuita dal legislatore alla autonoma e convergente determinazione dei coniugi, assoggettata al controllo del giudice;

che, essendo tutti gli elementi giuridicamente rilevanti delle fattispecie poste a raffronto riconducibili ad una ratio unitaria, secondo la Corte di cassazione la scelta del legislatore di consentire la deduzione dei soli assegni periodici è priva di qualsiasi ragionevole giustificazione, perché l’unico elemento che diversifica i due modi di adempimento non è tale da incidere in modo determinante sull’identità di ratio e disciplina, mentre il fondamento legislativo dell’onere in questione e lo specifico “titolo giurisdizionale” che lo impone garantiscono l’esigenza di certezza nell’individuazione degli oneri deducibili e di prevenzione da possibili evasioni d’imposta;

che la differenziazione tra i due regimi tributari finisce per disincentivare, creando evidenti svantaggi d’ordine economico, il ricorso ad un istituto previsto dalla legge, riducendo quindi la stessa facoltà di scelta attribuita ai coniugi in sede di divorzio a tutela dei loro legittimi interessi economico-patrimoniali, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.;

che, sempre ad avviso del giudice a quo, l’omessa previsione della deducibilità viola anche il principio costituzionale di eguaglianza poiché la deducibilità dell’onere di cui trattasi dal reddito complessivo dell’obbligato, dipendendo unicamente dalla scelta della modalità di adempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di divorzio, si risolverebbe in una “discriminazione tributaria”;

che, secondo la Corte di cassazione, la disposizione impugnata viola anche l’art. 53 Cost, con riferimento al principio della capacità contributiva che deve intendersi come espressione dell’esigenza che ogni prelievo tributario abbia una causa giustificatrice in indici o presupposti concretamente rivelatori di ricchezza, e cioè come idoneità soggettiva all’obbligazione d’imposta;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare la questione inammissibile o infondata;

che, rileva innanzitutto la difesa erariale, la disposizione impugnata è strettamente correlata con quella contenuta nell’art. 47, lettera i), del d.P.R. n. 917 del 1986, che stabilisce che l’assegno percepito in forma periodica dal coniuge beneficiario è soggetto a tassazione ai fini IRPEF quale reddito assimilato a quello di lavoro dipendente, costituendo “una sorta di retribuzione” del percettore, mentre la corresponsione dell’importo in unica soluzione realizzerebbe una “attribuzione patrimoniale” cui non potrebbe essere riconosciuta la natura di “reddito”, come la stessa Corte di cassazione ha affermato con la sentenza del 12 ottobre 1999, n. 11437;

che, sempre secondo l’Avvocatura, non sarebbe neppure ravvisabile una violazione dell’art. 53 Cost. poiché l’assegno versato una tantum è espressione di un accordo tra le parti per il raggiungimento di un punto di equilibrio nel complesso assetto di interessi personali, familiari e patrimoniali dei coniugi;

che ad avviso dell’Avvocatura la questione sarebbe, prima che infondata, inammissibile ed il suo accoglimento condurrebbe a conseguenze inaccettabili sul piano del sistema tributario in generale, dal momento che la deduzione potrebbe essere effettuata dal reddito del contribuente sino alla concorrenza dello stesso, col risultato che, qualora la somma versata una tantum fosse superiore al reddito tassabile di quell’anno di imposta, non potrebbe comunque effettuarsi la detrazione di quanto effettivamente corrisposto;

che, essendo la deduzione dal reddito dell’obbligato correlata alla imponibilità degli stessi importi in capo al percipiente, questi si troverebbe esposto al pagamento di una imposta iniqua perché eccessiva e la Corte non potrebbe limitarsi alla pronuncia di incostituzionalità della disposizione impugnata, ma dovrebbe operare una manipolazione additiva comportante scelte che appartengono alla discrezionalità del legislatore, quali la scelta dell’aliquota da applicare e la determinazione della detrazione da riconoscere al beneficiario.

Considerato che la Corte di cassazione – sezione tributaria dubita della legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, lettera g), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 597 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), come modificato dall’art. 5, comma 1, della legge 13 aprile 1977, n. 114 (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), nella parte in cui non prevede la deducibilità dal reddito imponibile ai fini dell’IRPEF dell’importo dell’assegno corrisposto in unica soluzione all’ex coniuge in caso di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio;

che ad avviso del giudice a quo l’omessa previsione della deduzione violerebbe l’art. 3, primo comma, della Costituzione, essendo il frutto di una scelta irragionevole del legislatore, potendosi al contrario dedurre l’importo corrispondente agli assegni corrisposti al beneficiario in forma periodica, pur essendo unica la funzione delle due forme di pagamento, entrambe disciplinate dalla legge e soggette al controllo del giudice;

che essa inoltre violerebbe anche l’art. 3, primo comma, Cost. sotto il profilo del principio di eguaglianza, perché creerebbe una disparità di trattamento tra i contribuenti fondata esclusivamente sulla forma scelta dalle parti per la regolazione dei loro rapporti patrimoniali, nonché l’art. 53, primo comma, Cost. perché in tal modo i redditi dell’obbligato sarebbero tassati in modo iniquo e non corrispondente alla sua capacità contributiva;

che, come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare (cfr. ex plurimis le sentenze n. 134 e 143 del 1982 e da ultimo l’ordinanza n. 370 del 1999), la deducibilità o meno di oneri e spese dal reddito imponibile del contribuente non è generale ed illimitata, spettando al legislatore la sua individuazione in considerazione del necessario collegamento con la produzione del reddito, con il gettito generale dei tributi e con l’esigenza di adottare le opportune misure atte ad evitare le evasioni di imposta, secondo scelte che in questa materia appartengono alla discrezionalità legislativa, col solo limite del rispetto del generale principio di ragionevolezza;

che, nel caso in esame, la previsione normativa riguarda due forme di adempimento, cioè quella periodica e quella una tantum, le quali – pur avendo entrambe la funzione di regolare i rapporti patrimoniali derivanti dallo scioglimento o dalla cessazione del vincolo matrimoniale – appaiono sotto vari profili diverse, e tali sono state considerate dal legislatore nella disciplina dettata in materia;

che, in particolare, sull’accordo tra le parti l’importo da corrispondere in forma periodica viene stabilito in base alla situazione esistente al momento della pronuncia, con la conseguente possibilità di una loro revisione, in aumento o in diminuzione; mentre al contrario quanto versato una tantum – che non corrisponde necessariamente alla capitalizzazione dell’assegno periodico – viene concordato liberamente dai coniugi nel suo ammontare e definisce una volta per tutte i loro rapporti per mezzo di una attribuzione patrimoniale, producendo l’effetto di rendere non più rivedibili le condizioni pattuite, le quali restano così fissate definitivamente;

che la soluzione auspicata dal giudice rimettente finirebbe col rendere deducibile dal reddito un trasferimento squisitamente patrimoniale;

che, inoltre, da essa conseguirebbe – a fronte della deducibilità dal reddito del soggetto tenuto all’adempimento – la necessità di regolare, con scelte che spettano al legislatore, la (corrispondente) obbligazione tributaria in capo al percipiente;

che pertanto il legislatore non irragionevolmente ha previsto una diversa regolamentazione tributaria per le differenti forme di adempimento esaminate, secondo un regime che è rimasto nel tempo invariato anche dopo l’entrata in vigore del d.P.R. n. 917 del 1986 e le modifiche introdotte alla legge n. 898 del 1970 e dunque va esclusa sotto ogni profilo la violazione dell’art. 3 Cost.;

che del pari infondata è la questione sollevata in riferimento all’art. 53 Cost., non provocando la scelta del legislatore la prospettata lesione del principio di capacità contributiva, lesione che, al contrario, potrebbe configurarsi qualora si ammettesse la deducibilità della somma corrisposta una tantum, che appare come conseguenza di un assetto complessivo degli interessi personali, familiari e patrimoniali dei coniugi, non direttamente correlata al reddito percepito dal contribuente nel periodo di imposta;

che pertanto la questione è manifestamente infondata sotto ogni profilo.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PQM

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, lettera g), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 597 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), come modificato dall’art. 5, comma 1, della legge 13 aprile 1977, n. 114 (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Corte di cassazione – sezione tributaria con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 novembre 2001.

Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2001.

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Corte Costituzionale, 29/03/2007, (ud. 19/03/2007, dep. 29/03/2007), n.113

Fatto

Ritenuto

che, nel corso di un giudizio tributario promosso da un contribuente avverso una cartella di pagamento – nella quale l’Agenzia delle entrate di Udine non aveva riconosciuto la deducibilità, ai fini dell’IRPEF del 2000, dell’assegno di lire 50 milioni, corrisposto in unica soluzione dal medesimo contribuente alla propria coniuge -, la Commissione tributaria provinciale di Udine, con ordinanza pronunciata il 22 giugno 2005 e depositata il giorno successivo, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale: a) dell’art. 10, comma 1, lettera c) [quale sostituito dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 330, recante «Semplificazione di talune disposizioni in materia tributaria», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 27 luglio 1994, n. 473], del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), nella parte in cui non prevede, ai fini dell’IRPEF, la deducibilità dal reddito imponibile dell’assegno (non destinato al mantenimento dei figli) corrisposto al coniuge in unica soluzione, in conseguenza di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, nella misura in cui risulta da provvedimenti dell’autorità giudiziaria; b) «implicitamente» e «con consequenzialità inevitabile», dell’art. 47, comma 1, lettera i) [come modificata, a decorrere dal 1° gennaio 2000, dall’art. 13, comma 1, lettera a, del decreto legislativo 23 dicembre 1999, n. 505, recante «Disposizioni integrative e correttive dei D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314, D.Lgs. 21 novembre 1997, n. 461, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 466, e D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 467, in materia di redditi di capitale, di imposta sostitutiva della maggiorazione di conguaglio e di redditi di lavoro dipendente»], del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, nella parte in cui non comprende tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e, quindi, nel reddito imponibile, l’importo del predetto assegno percepito dal coniuge;

che, dopo aver premesso che la medesima questione – in relazione all’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986 – è stata già dichiarata manifestamente infondata dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 383 del 2001, il giudice rimettente afferma di voler prospettare «nuovi motivi e diversi profili» di illegittimità costituzionale, tali da indurre la Corte a “rivedere” detta decisione;

che, ad avviso del giudice a quo, la Corte costituzionale, nella citata ordinanza, non avrebbe adeguatamente considerato: a) che l’accordo raggiunto dalle parti, ai sensi dell’art. 5, comma 8, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) [comma introdotto dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, recante «Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio»], circa l’adempimento in unica soluzione – invece che mediante assegni periodici – dell’obbligazione derivante dallo scioglimento o dalla cessazione del vincolo matrimoniale, «vale […] a determinare il “modo” di estinzione dell’obbligazione, ma non ne muta la natura», data la «perfetta equivalenza sotto il profilo giuridico e funzionale» di tale forma di adempimento con quella rappresentata da esborsi periodici, rispetto alla comune finalità di sovvenire il coniuge economicamente piú debole, in conformità ad un provvedimento giudiziario; b) il pagamento una tantum di un assegno al coniuge – in misura corrispondente alla capitalizzazione di un assegno periodico – è fatto idoneo a ridimensionare l’entità dei rilevatori di ricchezza di chi ha effettuato l’esborso e, quindi, ad incidere sulla capacità contributiva del solvens, al pari del pagamento di assegni periodici; c) l’indeducibilità dell’assegno corrisposto una tantum, prevista dal censurato art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986, comporta una ingiustificata disincentivazione del ricorso dei coniugi a tale tipo di assegno, rispetto agli assegni periodici, dalla legge considerati, invece, deducibili;

che, per il rimettente, tali considerazioni evidenzierebbero il contrasto tra il citato art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986 e gli evocati parametri costituzionali, senza che in contrario possano valere i due argomenti a suo tempo addotti dalla Corte costituzionale nella menzionata ordinanza n. 383 del 2001 e basati, il primo, sul fatto che il legislatore gode di ampia discrezionalità nel prevedere o nell’escludere la deducibilità dal reddito imponibile di oneri e spese, e, il secondo, sulla circostanza che l’importo dell’assegno corrisposto una tantum non potrebbe mai essere considerato deducibile dal reddito imponibile di chi lo corrisponde, non risultando detto importo compreso – ai sensi dell’art. 47, comma 1, lettera i), del d.P.R. n. 917 del 1986 – tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e, quindi, nel reddito imponibile di chi lo ha percepito;

che, in proposito, il giudice rimettente replica, al primo argomento, che la discrezionalità del legislatore incontra, appunto, il limite della ragionevolezza; al secondo, che «nulla osta affinché la Corte dichiari l’illegittimità costituzionale tanto della mancata previsione di deducibilità […] quanto, con consequenzialità inevitabile, la mancata previsione di imponibilità», e ciò perché, «nel chiedere la declaratoria di incostituzionalità della mancata previsione di deducibilità, implicitamente viene richiesto anche la declaratoria della mancata previsione di imponibilità»;

che, quanto alla rilevanza delle sollevate questioni, il giudice a quo si limita ad affermarne la sussistenza;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la Corte dichiari: a) l’inammissibilità della questione relativa all’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986, perché il rimettente ripropone pedissequamente le stesse problematiche già esaminate e risolte dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 383 del 2001; b) la manifesta inammissibilità della questione relativa all’art. 47, comma 1, lettera i), del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, sia perché estranea all’oggetto del giudizio principale, sia perché il rimettente propone un intervento additivo non compreso tra le attribuzioni della Corte costituzionale; c) la manifesta infondatezza, in ogni caso, di entrambe le questioni, perché il giudice a quo erroneamente identifica, sia in relazione al principio di uguaglianza che a quello della capacità contributiva, due situazioni giuridicamente diverse, assimilando il pagamento periodico dell’assegno (situazione che configura una componente reddituale, imponibile per l’accipiens e deducibile per il solvens) al pagamento dell’assegno in unica soluzione (situazione che, invece, realizza uno spostamento patrimoniale di ricchezza, non riferibile ad un singolo periodo di imposta e non configurabile quale componente del reddito, né dal punto di vista dell’accipiens né da quello del solvens).

Diritto

Considerato

che la Commissione tributaria provinciale di Udine dubita, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, della legittimità sia dell’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), nella parte in cui non prevede, ai fini dell’IRPEF, la deducibilità dal reddito imponibile dell’assegno (non destinato al mantenimento dei figli) corrisposto al coniuge in unica soluzione, in conseguenza di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, nella misura in cui risulta da provvedimenti dell’autorità giudiziaria; sia – «implicitamente» e «con consequenzialità inevitabile» – dell’art. 47, comma 1, lettera i), del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, nella parte in cui non comprende tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e, quindi, nel reddito imponibile, l’importo del predetto assegno percepito dal coniuge;

che il giudice rimettente, nel riproporre, in riferimento alla prima delle due disposizioni denunciate, la medesima questione già dichiarata da questa Corte manifestamente infondata con l’ordinanza n. 383 del 2001, afferma di prospettare «nuovi motivi e diversi profili» di illegittimità costituzionale, rispetto a quelli a suo tempo esaminati dalla Corte;

che, secondo la Commissione tributaria provinciale, il vigente testo dell’art. 5, comma 8, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), evidenzierebbe che il pagamento al coniuge di un assegno una tantum, stabilito – sempre secondo la stessa Commissione – per effetto di «un accordo tra privati i quali decidano di capitalizzare la somma dovuta da uno all’altro», è perfettamente equivalente, per natura giuridica, finalità e fondamento normativo, al pagamento di un assegno periodico, stabilito iussu iudicis, perché tali due forme di pagamento costituiscono modi diversi di estinzione della medesima obbligazione ed entrambe presuppongono, «a monte […], un provvedimento giudiziario che dispone tanto l’obbligo della corresponsione quanto l’entità della stessa»;

che, per il rimettente, il denunciato art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986, nel prevedere la deducibilità dall’imponibile dell’IRPEF dell’assegno periodico e l’indeducibilità dell’assegno corrisposto una tantum, determinerebbe una «irrazionale disparità di trattamento» fiscale di due modalità di pagamento equivalenti, finendo «irragionevolmente per disincentivare», mediante la creazione di «svantaggi di ordine economico», il ricorso ad un «istituto previsto dalla legge», quale il pagamento dell’assegno in unica soluzione, con conseguente lesione dei princípi costituzionali di uguaglianza, ragionevolezza e capacità contributiva;

che, ad avviso del giudice a quo, contrariamente a quanto affermato dalla Corte costituzionale nella citata ordinanza n. 383 del 2001, la censurata disposizione non può trovare giustificazione nella discrezionalità del legislatore in tema di individuazione dei casi di deducibilità dall’imponibile di oneri e spese, perché anche tale discrezionalità incontra il limite della ragionevolezza;

che il giudice rimettente, al rilievo (anch’esso contenuto nella suddetta ordinanza della Corte costituzionale) secondo cui la richiesta deducibilità dell’assegno corrisposto una tantum comporterebbe la necessità di regolare, con scelte spettanti al legislatore, la corrispondente obbligazione tributaria in capo al percipiente, oppone che, «nel chiedere la declaratoria di incostituzionalità della mancata previsione di deducibilità, implicitamente viene richiesto anche la declaratoria della mancata previsione di imponibilità»;

che, per la Commissione tributaria, deve essere consequenzialmente dichiarata l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 47, comma 1, lettera i), del d.P.R. n. 917 del 1986, nella parte in cui non comprende tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e, quindi, nel reddito imponibile, l’importo dell’assegno percepito in unica soluzione dal coniuge;

che la questione concernente l’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986 è manifestamente infondata, non essendo stati prospettati profili diversi da quelli già esaminati da questa Corte nell’ordinanza n. 383 del 2001 o comunque tali da indurre a mutare orientamento;

che, in particolare, la Commissione tributaria provinciale ripropone l’erronea tesi della «perfetta equivalenza» tra il pagamento tramite un assegno periodico e quello tramite un assegno corrisposto in unica soluzione ed afferma che quest’ultimo assegno sarebbe l’effetto di «un accordo tra privati i quali decidano di capitalizzare la somma dovuta da uno all’altro»;

che invece, come questa Corte ha già rilevato nella citata ordinanza, le due suddette forme di adempimento, pur avendo entrambe la funzione di regolare i rapporti patrimoniali derivanti dallo scioglimento o dalla cessazione del vincolo matrimoniale, hanno connotazioni giuridiche e di fatto diverse, tali da legittimare il legislatore a prevedere, nella sua discrezionalità, diversi regimi fiscali;

che, infatti, mentre l’assegno periodico è determinato dal giudice in base ai parametri indicati dal comma 6 dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, con possibilità di revisione (in aumento o in diminuzione), ai sensi dell’art. 9, comma 1, della stessa legge, invece l’assegno versato una tantum non corrisponde necessariamente alla capitalizzazione dell’assegno periodico, ma è liberamente concordato dalle parti – sia pure con soggezione al controllo di equità da parte del giudice -, al fine di fissare un definitivo e complessivo assetto degli interessi personali, familiari e patrimoniali dei coniugi, tale da precludere ogni successiva domanda di contenuto economico (comma 8 del citato art. 5);

che tali differenze – le quali hanno indotto parte cospicua della dottrina e della giurisprudenza ad attribuire all’accordo per il pagamento una tantum una peculiare natura «transattiva» o «novativa», oltre che «aleatoria» – sono state non irragionevolmente prese in considerazione dal legislatore fiscale nella denunciata disciplina della deducibilità di tali assegni dall’imponibile dell’IRPEF;

che, infatti, il legislatore, nel caso di corresponsione di un capitale una tantum – sicuramente di importo maggiore di un assegno periodico -, ha preferito tutelare l’accipiens (cioè il coniuge economicamente più debole che, ai sensi dell’indicato comma 6 dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, «non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive») non assoggettandolo a tassazione per il relativo importo e lasciando simmetricamente immutato l’ordinario carico fiscale del solvens, senza prevedere, quindi, alcuna deduzione per tale esborso;

che lo stesso legislatore, nel caso degli assegni periodici, ha invece ritenuto di assimilarli ai redditi di lavoro dipendente assoggettandoli a tassazione in capo al coniuge che li percepisce e correlativamente, al fine di evitare doppie imposizioni, li ha considerati oneri deducibili da parte del coniuge che li corrisponde; e ciò, in ragione sia della loro periodicità (e, quindi, della loro pertinenza a più periodi d’imposta) sia della possibilità di una loro revisione economica per sopraggiunti giustificati motivi;

che, data la diversità delle evidenziate situazioni giuridiche e di fatto, la discrezionalità del legislatore circa l’individuazione dei casi di deducibilità di oneri e spese dal reddito imponibile del solvens è stata esercitata, nella specie, in modo non irragionevole al fine di perseguire finalità sociali di tutela differenziata dei coniugi, tenendo conto della diversità delle situazioni;

che l’accoglimento della sollevata questione di illegittimità costituzionale non farebbe, comunque, venir meno la denunciata disincentivazione del ricorso all’istituto della corresponsione una tantum dell’assegno, ma addirittura l’aggraverebbe, perché il carico fiscale, concentrato in un unico periodo d’imposta, verrebbe trasferito all’accipiens (cioè al coniuge economicamente piú debole) e quest’ultimo – date la progressività dell’IRPEF e l’assenza di un regime di tassazione separata per la somma cosí percepita in unica soluzione – si vedrebbe assoggettato ad aliquote marginali d’imposta superiori a quelle applicabili, in una pluralità di periodi d’imposta, con gli assegni periodici;

che, infine, alla dichiarazione di manifesta infondatezza della questione concernente l’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986 consegue identica pronuncia con riguardo alla questione concernente l’art. 47, comma 1, lettera i), dello stesso d.P.R. n. 917 del 1986;

che, infatti, quest’ultima questione è stata sollevata dal giudice a quo sulla premessa della illegittimità costituzionale dell’indicato art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986, con la conseguenza che la sopra accertata erroneità di detta premessa comporta la manifesta infondatezza della questione medesima.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PQM

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 10, comma 1, lettera c), e 47, comma 1, lettera i), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Udine, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2007.

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 29 MAR. 2007.

1 Comment

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