LA CASSAZIONE CUMULA IL REDDITO DEI FIGLI ANCHE NELLE SEPARAZIONI DEI GENITORI

DIVORZIO: LE COLPE DEI PADRI RICADANO SUI FIGLI, O VICEVERSA?

Separazione e Divorzio

Separazione e Divorzio

Cosa accade se una coppia con figli con reddito vuole separarsi e uno dei genitori è invece privo di reddito, o quasi?

Il massimo Ufficio Giudiziario ci dice che il genitore debole non potrà avere il patrocinio a spese dello Stato se il reddito dei figli cumulato fra loro, ed al suo, supera la soglia di legge per l’ammissione. I redditi si cumulano perchè la norma non prevede l’estensione ai figli della situazione di conflittualità giustificante l’esenzione dal medesimo cumulo.

Con la sentenza n.18039 del 2015, la Corte di Cassazione precisa, infatti, che nelle cause di separazione e divorzio vi è conflitto di interessi solo con il coniuge legittimato attivo all’azione promossa e non anche con i figli conviventi, processualmente privi di ogni legittimazione: questo perchè, a fronte dell’azione di natura strettamente personale coinvolgente i soli coniugi, a nulla rileva un’eventuale dissenso o consenso dai figli manifestato per l’iniziativa del genitore che promuove l’azione, ciò semmai incidendo esclusivamente sul piano del fatto e non delle condizioni di diritto per l’accoglimento della domanda giudiziale e l’ammissione al beneficio del aptrocinio a spese dello stato.

La decisione della Suprema Corte pare in concreto dare una motivazione ben giustificata per la fattispecie oggetto di giudizio, ma ribadisce un principio di portata pericolosa per il caso generale: con tale scelta si fanno ricadere sui figli, magari minori seppur redittualmente significanti, il peso della separazione  o del divorzio dei genitori.

Avv. Alberto Vigani



Cassazione Penale Sent. Sez. 4 Num. 18039 Anno 2015

Presidente: SIRENA PIETRO ANTONIO

Relatore: VITELLI CASELLA LUCA

Data Udienza: 01/04/2014

Ritenuto in fatto

La Corte d’appello di Cagliari, con sentenza emessa in data 12 febbraio 2013, confermava la sentenza 20 novembre 2009 con la quale il GIP del Tribunale di Cagliari, in esito a giudizio abbreviato, dichiarò PODDA Maria Bonaria responsabile del delitto di cui agli artt. 76 e 95 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115,commesso in Cagliari l’ 1 febbraio 2007, per aver falsamente attestato, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che il proprio nucleo famigliare aveva percepito, nell’anno 2005, redditi pari a 5.190,00 euro anziché per complessivi euro 34.948,00, omettendo in tal modo di indicare i redditi percepiti nello stesso anno dai figli conviventi, peraltro menzionati nella stessa dichiarazione: Bucino Antonio e Bucino Patrizia, pari rispettivamente ad euro 22.485,00 ed ad euro 17.729,00.

Ricorre per cassazione l’imputata, per tramite del difensore, deducendo quattro motivi di annullamento per vizi di violazione di legge,così riassunti.

Denunzia la ricorrente, con il primo motivo, la violazione dell’art.76, comma 40 d.P.R. n.115 del 2002 per avere la Corte distrettuale disatteso la chiara portata derogatoria di detta disposizione che stabilisce che, nei processi in cui gli interessi del richiedente siano in conflitto con quelli degli altri componenti del nucleo famigliare, deve tenersi conto del solo reddito personale del dichiarante.

Sostiene il difensore che, nel caso specifico, l’imputata avrebbe potuto giovarsi di tale deroga posto che,quale convenuta nella causa di divorzio promossa dal coniuge, per ciò stesso si era venuta a trovare in conflitto di interessi con i figli conviventi, attesa la notoria avversione di questi sia alla separazione che, a fortiori, al divorzio dei genitori.

Con il secondo motivo lamenta la violazione dell’art. 47, comma 3° cod. pen. posto che, anche ove si ritenesse il divorzio non rientrare tra le ipotesi di deroga, risulterebbe comunque innegabile l’errore interpretativo della norma extrapenale in cui sarebbe incorsa l’imputata, tale da escluderne la punibilità.

Lamenta inoltre il difensore, con la terza censura, la violazione dell’art. 49 comma 2° cod.pen. La Corte d’appello, secondo la difesa, avrebbe dovuto pronunziare sentenza di assoluzione della prevenuta essendo impossibile l’evento dannoso o pericoloso, per inidoneità dell’azione stante l’inammissibilità intrinseca dell’istanza di ammissione al gratuito patrocinio presentata dalla predetta, al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Cagliari in quanto priva dei requisiti essenziali previsti dall’art. 79 d.P.R. n. 115 del 2002, quanto all’indicazione dei figli. Di talchè l’istanza non avrebbe potuto valere quale dichiarazione sostitutiva della certificazione sulle condizioni di reddito dei componenti il nucleo famigliare.

Con l’ultimo motivo, il difensore si duole del vizio motivazionale non avendo i Giudici di seconda istanza preso in esame i documenti prodotti dalla difesa e costituiti dai moduli e dalle istruzioni predisposti dai diversi ordini forensi per la domanda di ammissione al gratuito patrocinio a dimostrazione della sussistenza di conflitto di interesse tra i famigliari del richiedente coinvolto in causa di divorzio.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato e deve quindi esser respinto con ogni conseguente effetto a carico dell’imputata, ex art. 616 cod. proc. pen.

Quanto alla PRIMA doglianza, non può non condividersi l’esaustiva e puntuale motivazione resa dalla Corte distrettuale in “risposta ” della stessa censura dedotta con i motivi d’appello, con cui si è sottolineata in particolare la sussistenza oggettiva e soggettiva del delitto di falso commesso dalla imputata.
Resta invero escluso che l’imputata, quale convenuta nella causa di divorzio intentata dal coniuge, potesse trovarsi in conflitto di interessi non solo (com’è ovvio) con il coniuge legittimato attivo all’azione promossa, ma anche con i figli conviventi, processualmente privi di ogni legittimazione a fronte dell’azione di natura strettamente personale coinvolgente i soli coniugi, a nulla comunque rilevando un’eventuale dissenso o consenso dai figli manifestato per l’iniziativa del padre, ciò semmai incidendo esclusivamente sul piano congetturale e di fatto. Peraltro l’oggettiva falsità della dichiarazione autocertificativa ex artt. 79 lett. c) e 76 d.P.R. n. 115 del 2002 sull’ammontare del reddito complessivo del nucleo famigliare nella quale l’imputata omise di indicare i redditi percepiti dai due figli conviventi doveva ritenersi pacificamente sorretta dall’incontestabile volontà di dissimulare il vero allo scopo di conseguire il beneficio richiesto, nella consapevolezza di non trovarsi nelle condizioni previste dalla legge.

A riprova deve annotarsi che la Podda si guardò bene dal segnalare, nella domanda di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, presentata al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Cagliari, le ragioni che l’avevano indotta ad omettere l’indicazione dei redditi prodotti dai figli nell’anno d’imposta di riferimento 2005.
Alla invero pretestuosa esistenza del conflitto di interessi, quale “illazione della difesa ” (come ha evidenziato la Corte d’appello ) l’imputata fece cenno unicamente con l’atto d’appello, disvelando la manifesta mala fede che inficiava la presentazione della domanda, non avendo messo in condizione l’organo competente a provvedere in via anticipata di compiere le necessarie e preventive verifiche ed eventualmente ammetterla al beneficio escludendo da calcolo complessivo del reddito quello prodotto dai figli conviventi nell’anno 2005, ove ritenuta la sussistenza del conflitto di interessi ovvero determinarsi diversamente.

Egualmente infondato è per la Corte il SECONDO motivo. Questa stessa Sezione, con la sentenza n.37590 del 2010 rv. 248404, ha già statuito che deve considerarsi errore sulla legge penale – tale quindi da non escludere la punibilità – quello che involga quanto previsto dall’art. 76 d.P.R. n. 115 del 2002 ” che è espressamente richiamato dalla norma incriminatrice di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 “,previo rinvio all’art. 79 dello stesso d.P.R., non trattandosi di norma extrapenale. Dal chiaro orientamento non v’è motivo di discostarsi, non rilevando quindi nella concreta fattispecie il disposto dell’art.47, comma 30 cod.pen.

Del tutto condivisibile (in quanto immune dai lamentati vizi) va ritenuto l’assunto argomentativo con cui la Corte d’appello ha già giudicato priva di pregio la stessa censura, riproposta con il TERZO motivo di ricorso. Come già rilevato, la fattispecie di reato rientra nella categoria del reato di pura condotta. L’evento costituito dal conseguimento dell’illecita ammissione al beneficio determina unicamente un aumento della pena. Ora può dirsi orientamento prevalente e consolidato della giurisprudenza di legittimità, ancorchè risalente nel tempo, quello secondo il quale ( cfr. ex multis: Sez.1 n. 721/1998 rv. 180233; Sez 6 n.15335/1990 rv. 185809; Sez. 2 n.7630/2004 rv.228557) ai fini della configurabilità del reato impossibile, “l’inidoneità, in rapporto all’evento voluto, deve essere assoluta, con valutazione astratta della inefficienza strutturale e strumentale del mezzo che non deve consentire neppure una attuazione eccezionale del proposito criminoso.” Il che non appare sostenibile nel caso di specie in cui – ovviamente – il fatto che l’imputata abbia indicato nell’istanza di cui all’art. 79 d.P.R. n.115 del 2002 ( come si assume in ricorso) le generalità dei figli conviventi, ancorchè incomplete perchè prive del rispettivo codice fiscale, non rappresentò circostanza impeditiva degli accertamenti del caso, attesochè l’istante ebbe ad omettere la contestuale specificazione delle ragioni per cui,versando essa in conflitto di interessi, non si sarebbe dovuto tener conto dei redditi prodotti da costoro. Né può ritenersi ammissibile, date le riferite circostanze di fatto, che la ricorrente possa ” giovarsi ” a posteriori del mancato rilievo dell’inammissibilità dell’istanza dalla stessa proposta volutamente incompleta (come sostenuto peraltro solamente con l’atto d’appello) onde sottrarsi a responsabilità penale.

La ” risposta ” alla QUARTA ed ultima censura dedotta è già stata esposta nelle considerazioni che precedono avendo la Corte d’appello già sufficientemente messo in luce la condizione di mala fede in cui versava l’imputata allorché non prospettò, in uno con la domanda (volutamente redatta in termini incompleti) la sussistenza del presunto conflitto di interessi in cui versava nei confronti dei figli conviventi in quanto convenuta nella causa di divorzio.

P Q M

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma,lì 1 aprile 2014.

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